Il Panificio Tresoldi di Bergamo a luglio 2020, in piena pandemia e senza ricorrere alla cassa integrazione, comunica a F.R., suo dipendente da oltre 10 anni, una riduzione d’orario da 40 ore settimanali a 12, distribuite su 2 ore al giorno dalle 9 alle 11 dal lunedì al sabato, di fatto riducendole del 70% lo stipendio mensile.
Il lavoratore contesta questa decisione e si rivolge all’ufficio vertenze della CGIL che chiede all’azienda di ripristinare il contratto con cui FR era stato assunto, ma il panificio rifiuta di fare un passo indietro. FR si dimette, ovviamente per giusta causa, e chiede all’INPS di usufruire della NASPI come tutti i disoccupati involontari. L’INPS di Bergamo non concede l’indennità perché ritiene non ricorrano le condizioni di “giusta causa” nelle sue dimissioni.
Il lavoratore, assistito dal patronato INCA, ricorre al Comitato Provinciale INPS che all’unanimità approva il ricorso dandogli ragione. La direttrice dell’INPS di Bergamo, come quasi sempre avviene in questi casi, si astiene rimettendo la decisione al Comitato Nazionale, anch’esso costituito come quello provinciale dai rappresentanti dei sindacati più rappresentativi, del mondo delle imprese, dei Ministeri del Tesoro e del Lavoro, e dell’INPS nazionale. Il comitato nazionale boccia di nuovo la richiesta di F.R.
“Ridurre l’orario e conseguentemente il salario del 70% per il resto della vita non è ragione sufficiente del dimettersi e cercare alla svelta un lavoro che consenta a una persona di poter vivere dignitosamente? – commenta Marcello Gibellini, Presidente comitato Inps Bergamo - Mi sono adoperato per segnalare a voce e per scritto la situazione anche al rappresentante del mio sindacato in quel comitato. Niente da fare.
Hanno bocciato il ricorso perché la circolare che regola le dimissioni per giusta causa cita solo il “mancato pagamento della retribuzione” e non la riduzione dell’orario, anche quando è consistente come in questi casi.
Confesso di aver fatto cattive considerazioni sui rappresentanti nazionali dei sindacali e delle imprese, mi chiedo se non capiscono o non sanno che per la stragrande maggioranza dei lavoratori la retribuzione pattuita è corrisposta in base all’orario di lavoro che si effettua. Ridurre l’orario del 70% significa ridurre il salario del 70% . Credo che ci si debba sempre mettere, per quanto possibile, nei panni delle persone che si intende rappresentare e tutelare”.
La magistratura ha comunque fatto giustizia. Il Tribunale di Bergamo ha infatti dato totalmente ragione a F.R.: “Dalla ricostruzione dei fatti – dice la sentenza – appare chiara la sussistenza di una giusta causa di dimissioni rappresentata dall’unilaterale riduzione dell’orario di lavoro da 40 a 12 ore settimanali, con conseguente ingente perdita economica del ricorrente”. Il giudice ha condannato l’INPS a corrispondere alla lavoratrice l’indennità NASPI, oltre che al pagamento delle spese legali.
“Spero che anche INPS abbia capito – conclude Gibellini - che non valeva la pena ricorrere in appello, dove è emerso il torto del loro Comitato Nazionale. Se il lavoratore ha finalmente avuto ciò che gli spettava è grazie alla determinazione dell’Ufficio vertenze della CGIL, che non si è accontentato di aver intentato e vinto una causa contro il datore di lavoro, ma ha preteso giustizia anche dall’INPS”.
NOTA
Marcello Gibellini ci segnala (e ne diamo quindi atto) che quella nei confronti del datore di lavoro è stata una controversia esclusivamente stragiudiziale, conclusa dal nostro Ufficio Vertenze con un accordo che ha riconosciuto al lavoratore tutte le spettanze.
La causa in Tribunale è stata, invece, soltanto contro l’INPS.
E si è conclusa appunto con la sentenza che ha riconosciuto la giusta causa delle dimissioni presentate dal lavoratore, condannando l’INPS a pagare la NASPI, con arretrati, interessi e spese legali.