Un grande paradosso degli ultimi anni, evidente oggi più che mai, è quello della presunta “necessità di difendere i nostri confini” da coloro che però, alle nostre frontiere, giungono per chiedere protezione: di migrazioni, diritti e lavoro si è parlato il 19 dicembre in occasione dell’assemblea generale di fine anno della CGIL di Bergamo, riunita nella sede di via Garibaldi.
Ospite è stato Luca Di Sciullo, presidente di Idos, il centro studi e ricerche costituito nel 2004 dall’originario gruppo dei ricercatori operanti presso la Caritas di Roma per la realizzazione del Dossier Statistico Immigrazione, il primo rapporto organico annuale sull’immigrazione in Italia (la prima edizione è del 1991).
“In Italia abbiamo impiegato ben 25 anni, dal 1973 al 1998, per riuscire a varare una legge quadro sull’immigrazione che governasse in maniera organica la materia” ha spiegato lo studioso. “Prima di allora, i legislatori si erano occupati solo di normative specifiche, settoriali, soprattutto legate al lavoro, senza preoccuparsi di governare il fenomeno nella sua totalità. Si guardava già allora attraverso una lente deformata, la lente dell’emergenza. Quella prospettiva la manteniamo ancora oggi, molti decenni dopo”.
“Dal ’98 in poi, invece di sostituire quella lente deformata, ne abbiamo sovrapposta un’altra, ugualmente deformante, quella securitaria” ha proseguito Di Sciullo. “Dopo la caduta la Prima Repubblica, quattro anni prima dell’anno spartiacque del 1998, si sono fatti largo soggetti nuovi sulla scena politica, partiti che subito hanno soffiato sui timori nati fra la popolazione di fronte al fatto che l’Italia era diventata un Paese di immigrazione. Hanno aumentato la portata di queste paure, e ne hanno aggiunte di nuove, anche di indotte, su terreno formidabile per acquistare consenso. Così sui timori e sul risentimento contro i migranti questi soggetti si sono costruiti la loro fortuna elettorale, e in Italia abbiamo cominciato a sentirci dire quanto fosse giusto avere paura dell’immigrazione, e che gli immigrati erano la causa dei mali (endemici) dell’Italia”.
“Dopo la grande fatica di giungere a scrivere il Testo Unico sull’immigrazione, abbiamo impiegato i venticinque anni seguenti a restringerlo, modificarlo, tagliarlo, a operarne ben 60 modifiche normative, più 15 cambiamenti dei suoi decreti attuativi, in totale 75 modifiche. Cioè in media tre all’anno” fa notare il presidente Idos. “Così noi oggi governiamo un fenomeno straordinario e decisivo per le sorti della nostra società con una specie di patchwork normativo in cui quasi non si riesce più a riconoscere l’impianto originario”.
A proposito dei CPR, i Centri di permanenza per i rimpatri in cui “le condizioni di vita sono altamente degradate”, Di Sciullo ha spiegato come siano per giunta “del tutto inutili perché vi transitano appena 6.000 persone all’anno, a fonte di una stima di una sacca di irregolarità di mezzo milione di persone, secondo i dati Ismu. Di questi 6.000 vengono rimpatriati solo la metà. Li si trattiene all’interno un anno e mezzo, poi si dà agli altri un foglio di via, per farli di nuovo disperdere sul territorio. È quindi una misura del tutto inutile, ma incredibilmente violenta”.
“I richiedenti asilo, dal canto loro, relegati nei Cas, spesso devono attendere due anni - quando invece la legge prevedrebbe sei mesi – prima di ricevere una risposta allo loro domanda di asilo. Parcheggiati nei centri, diventano manodopera a basso costo offerta su un piatto d’argento alle organizzazioni criminali. Li ritroviamo al lavoro nelle nostre campagne, al massimo a due euro all’ora”, prosegue l’esperto.
“Quale è stato dunque il risultato sociale degli ultimi venticinque anni di politiche migratorie sempre più restrittive? Abbiamo visto affermarsi due modelli, il primo che riguarda l’inserimento sociale dei migranti, che noi abbiamo chiamato ‘di subalternità sociale’, e che riguarda l’erogazione di servizi e misure di welfare e di partecipazione attiva alla vita collettiva. Ecco, qui i migranti si trovano per legge in una situazione appunto di subalternità rispetto agli italiani. Vediamo così Comuni ed enti pubblici che immettono requisiti di sbarramento per la fruizione di servizi e sostegni, per evitare che i migranti vi accedano in condizioni di parità. Nel mondo del lavoro, invece, il modello è di segregazione occupazionale. Per decenni abbiamo convogliato la manodopera straniera in lavori di serie B, precari, pericolosi, pesanti, poco pagati e poco riconosciuti socialmente. Abbiamo etnicizzato l’inserimento lavorativo. L’Istat ci dice che dopo 10-15 anni i migranti svolgono gli stessi identici lavori, senza ascensore sociale né occupazionale. Il guaio è che anche i loro figli rischiano di avere lo stesso destino, lo si vede dai dati di presenza nelle scuole dell’obbligo e poi dall’esiguo numero di studenti di famiglie di origine straniera che raggiunge l’università. Sono tendenze che spingono alla subalternità, alla segregazione e all’ingiustizia sociale, tendenze di cui dovremmo tenere conto”, conclude Di Sciullo.
Ai lavori sono intervenuti, tra gli altri, anche Clemente Elia, responsabile dell’area migrazioni della CGIL Lombardia, Ivan Comotti, segretario di CGIL Lombardia, Marco Toscano e Roberto Rossi di CGIL Bergamo.