“La buona notizia è che dopo due anni di sosta forzata scendiamo di nuovo in piazza per la festa del Primo Maggio, la festa delle lavoratrici, dei lavoratori, del lavoro. La cattiva, tragica notizia è che ci ritroviamo nel bel mezzo di un conflitto scoppiato quasi nel cuore dell’Europa che mai avremmo immaginato possibile ai nostri tempi.
Sul conflitto, sul nostro impegno per gli aiuti alla popolazione ucraina, per la sua resistenza all’invasione russa e per la pace abbiamo condiviso i contenuti della manifestazione del 25 aprile scorso.
Ora si tratta di rimettere la nostra attenzione sui temi del lavoro: salari, qualità, continuità lavorativa, parità di genere, salute e sicurezza, riduzione delle diseguaglianze, ma anche, per noi strettamente connessi, quelli della formazione e dell’istruzione. Sono temi sui quali, se non rigorosamente presidiati, rischiano di abbattersi le conseguenze economiche più nefaste del conflitto. Ciò vale per l’oggi ma, soprattutto, per il domani, a maggior ragione se consideriamo la prospettiva cruda e realistica che il conflitto si protragga ancora a lungo.
La recente indagine sul sindacato nella società italiana, commissionata dalla CGIL di Bergamo a Ipsos, ci ha consegnato una percezione del sindacato tra la gente non certo idilliaca. Tuttavia la stessa ricerca ne rileva il bisogno proprio sui temi prima citati. Le persone da una parte hanno una visione critica del sindacato, dall’altra ne riconoscono implicitamente funzione e ruolo. Ho ribadito in ogni circostanza possibile che per questo, anche per questo, per le fasi di transizione che stiamo attraversando, dobbiamo rimboccarci le maniche e rilanciare la nostra azione e la nostra capacità di rappresentare il mondo del lavoro, dai più fragili, a chi rappresenta nuovi bisogni, al lavoro dipendente tradizionale fino ai pensionati.
Dobbiamo farlo cambiando noi stessi in profondità, rappresentando e supportando le nostre idee, richieste e proposte al governo, alla politica in una interlocuzione dialettica e rispettosa dei diversi ruoli di ciascuno, confrontandoci con le aziende, gli uffici, le istituzioni nel territorio. La parola d’ordine è il lavoro, il buon lavoro, al centro della politica.
Guai a chi pensa che nel fare questo rischieremmo di abdicare ad un impegno civile e generale più alto del sindacato, dei corpi della rappresentanza sociale che costituiscono l’ossatura di una società democratica e complessa come la nostra.
La guerra, per rimanere nell’attualità, si combatte anche con la crescita della coesione sociale e in questo ambito la nostra azione e la tutela e valorizzazione del lavoro sono elementi centrali. In occasione del dibattito sui risultati che la ricerca ci ha consegnato, questo aspetto è emerso con forza ed evidenza. Una buona azione sindacale, generale ed unitaria, tesa a raggiungere risultati tangibili per i propri rappresentati, con mediazioni di alto profilo, con una sana interlocuzione con i rappresentanti di governo e parlamento, con le organizzazioni che li hanno candidati, con le altre forze intermedie della rappresentanza sociale ed economica non può che giovare alla realizzazione di questo obiettivo. Anzi ne è condizione indispensabile.
Lo abbiamo fatto durante la prima fase, quella più drammatica, della pandemia e questo ci è stato in parte riconosciuto. Questo riconoscimento lo abbiamo perso subito dopo, almeno nella percezione della popolazione e dei nostri rappresentati. Oggi dobbiamo riprovarci. Lo possiamo e lo sappiamo fare, a costo di rimetterci nuovamente e senza remore, in discussione”.