Per trentuno anni, da quando era poco più che una ragazzina, ha lavorato dietro lo stesso bancone di un bar, nella piazza principale di una cittadina della provincia di Bergamo. È stata licenziata il 31 dicembre scorso per un presunto “giustificato motivo oggettivo” che però non esisteva (una riduzione di orario d’apertura della caffetteria, poi mai realizzata). Il proprietario del bar in realtà intendeva vendere l’attività senza che il futuro acquirente fosse costretto, come prevede la legge, a mantenere al suo posto la dipendente.
Per essere stata illegittimamente licenziata, la lavoratrice, oggi cinquantaquattrenne, si è vista indennizzare con sole quattro mensilità, cioè con 4.500 euro netti che le sono sembrati uno schiaffo in faccia. Al datore di lavoro è dunque costato in totale solo 6.000 euro sbarazzarsi di lei.
“È uno dei numerosi casi che ci capita di affrontare” commenta Silvia Rivola, responsabile dell’Ufficio Vertenze della CGIL di Bergamo. “Ci sentiamo con le mani legate dall’attuale normativa sui licenziamenti illegittimi nelle piccole aziende, quelle con meno di 15 dipendenti, per i quali si prevedono da 2,5 mensilità fino al tetto massimo (di rado concesso) di 6 mensilità come possibile indennizzo secondo la legge n. 604 del 1966 sulle ‘Norme sui licenziamenti individuali’”.
Questa disposizione di legge è tra quelle che la CGIL vorrebbe ora abrogare con l’iniziativa referendaria promossa in queste settimane attraverso una grande campagna nazionale di raccolta firme, in corso anche a Bergamo (i prossimi banchetti per firmare saranno allestiti alla festa dell’ANPI a Grumello del Monte nelle sere del 22, 23, 24, 25 e 26 maggio, poi nei mercati rionali cittadini. Si firma anche online con Spid o Cie qui www.cgil.it/referendum).
Dei quattro quesiti referendari proposti, il secondo chiede infatti l’abrogazione delle norme che prevedono il tetto massimo all’indennizzo in caso di licenziamento ingiustificato nelle piccole aziende, affinché sia il giudice a determinare il giusto risarcimento senza alcun limite.
“Nel caso della lavoratrice in questione, che si è rivolta alla CGIL, si è giunti a una conciliazione in giudizio, in cui il magistrato ha proposto un indennizzo di quattro mensilità, pari a 4.500 euro netti” prosegue l’avvocato Andrea Sterli, che ha seguito la vicenda con l’Ufficio Vertenze CGIL. “Proprio l’esistenza di un tetto che limita il valore economico di questo tipo di cause porta quasi sempre a conciliare, perché l’incidenza dei costi di un giudizio può essere elevatissima. È questione di buon senso: si cerca di evitare il rischio di pagare più spese legali di quanto non si recuperi come indennizzo. La conciliazione, però, essendo frutto di un accordo, spesso ha come esito un indennizzo che è ancora più basso del tetto già limitato previsto dalla norma”.
“Quando le abbiamo illustrato la normativa, la lavoratrice non capiva come fosse possibile che esistesse un tetto così basso al possibile indennizzo” ha aggiunto Silvia Rivola. “Era davvero arrabbiata, non ha avuto altra scelta che accettare quanto proposto dal giudice. È chiaro che togliere il tetto massimo all’indennizzo – come chiediamo di fare attraverso il referendum – potrebbe essere un disincentivo ai licenziamenti facili. Aprirebbe la strada a trattative molto diverse. Se un datore di lavoro sa che un licenziamento è illegittimo, meno facilmente sceglierà di procedere, non sapendo quanto potrebbe costargli. Oggi, invece, l’indennizzo viene messo semplicemente in conto, come un costo – tra l’altro basso – da sostenere”.